30.4.08

Radicali della Riforma o Riforma Radicale nel XVI secolo

.Ugo Gastaldi

L'EREDITA' DELLA "RIFORMA RADICALE"
DEL XVI SECOLO



Premesse 
Alcune brevi premesse introduttive possono giovare a chiarire soprat­tutto i limiti che si impongono alla trattazione di un tema così vasto ed oltretutto ancora così problematico.

Discutibile e discusso è tuttora l'uso dell'espressione “ Riforma radicale “, già usato e diffuso da George Williams, come del resto lo è quello di espres­sioni più o meno equivalenti come “ Sinistra della Riforma “, “ Radicali della Riforma “, ecc., che noi useremo insieme ad un'altra che sembra godere di un mag­giore favore in questi ultimi anni: quella di “ Dissidenti della Riforma “, sebbene anch'essa sia discutibile.
Faremo di queste etichette un uso acritico e di puro comodo.

Nemmeno vale la pena di ritornare sulla vecchia e non risolta questione se sia giusto porre questi radicali o dissidenti della Riforma (individui e gruppi) sotto una medesima etichetta, dal momento che le differenze che li distinguono sono tante e tali che ogni tentativo di una comprensione unitaria risulta piuttosto arduo.
Tuttavia, anche concedendo che non si possa parlare di una loro unità, è difficile negare che in queste differenti forme di dissenso emergano degli aspetti comuni, che legittimano un discorso in cui questi fenomeni vengono considerati insieme.

Vorrei anche aggiungere subito che l'enunciato del tema - L'eredità della Riforma radicale - non ci impedirà di andare anche oltre lo stretto am­bito storico dei dissidenti della Riforma propriamente detta, che a rigore vanno collocati nel secolo decimo sesto, perché se si parla di una “eredità” sarà talvolta opportuno riferirci ai dissidenti dei secoli XVII e XVIII, in cui vengono ripresi e sviluppati non pochi dei motivi caratteristici del dis­senso del secolo XVI.
Difatti. quelli che si conviene di chiamare “ aspetti comuni “ della Riforma radicale, sono spesso delle costanti che emergono in molti dei movimenti e del­le nuove chiese che fanno così varia e vivace la storia del protestantesimo.

Un'ultima premessa. Data la vastità dell'argomento noi ci soffermeremo non tanto sulle singole figure quanto sui gruppi di dissidenti, mettendo soprattutto in evidenza il loro modo di sentire il rapporto con Cristo, il cammino del cristiano e la vita comunitaria.
E' su questioni di questo genere che i radicali del secolo XVI e quelli ­dei secoli successivi si separano dalle chiese storiche della Riforma. Si tratta di questioni che stanno tuttora dinnanzi a noi, reali e coinvolgenti. E' soprattutto in questo senso che possiamo parlare di eredità.
Non ci occuperemo quindi di Thomas Müntzer o di Sebastian Franck o di Michele Serveto, per quanto importanti essi siano per un discorso complessivo sui radicali della Riforma.

- I -
LIBERTA’ E ROTTURA

1. Libertà del cristiano e libertà di chiesa.
I cosiddetti radicali o dissidenti della Riforma vanno collocati nel contesto storico da cui sorgono e da cui traggono ragione di essere: un con­testo di rottura con l'esistente e di affermazione di libertà.
Tutto comincia con la riscoperta della ' libertà del cristiano ', aspirazione ancora oscura nella pre-Riforma, che solo Lutero seppe portare ad una chiara espressione teologica ed avviare alle sue conseguenze pratiche.
Era del resto quello il momento storico in cui la “ humanitas “ della nuova cultura occidentale si emancipava dai condizionamenti della cultura me­dievale, senza tuttavia compiere una vera e propria rottura con l'istituzio­ne che di quella cultura era l'esponente più autorevole, la Chiesa. Con Lutero fu il cristiano in quanto tale ad emanciparsi dalla tutela opprimente e mortificante della Chiesa medievale.
La “ libertà del cristiano " era il frutto della giustificazione per sola grazia mediante la fede, che riconciliava il peccatore ravveduto con il Padre e poneva il credente in modo immediato e personale in rapporto con Dio. Tutta la macchinosa amministrazione dei beni salvifici di cui la Chiesa pretendeva di essere depositaria diventava inutile. La mediazione tra l'uomo e Dio veniva restituita al solo Cristo della sola fede, unico mediatore tra Dio e gli uomini.
Ma l'affermazione di questo principio di natura puramente teologica avrebbe potuto non avere alcun seguito se Lutero si fosse accontentato di essere un li­bero cristiano, a titolo puramente individuale, entro le mura del suo convento o nell'ambito di un umanesimo cristiano tollerato dalla Chiesa finché non ri­belle, come fecero Erasmo ed altri. Ma Lutero sentì invece che il cristiano doveva essere libero con gli altri cristiani, libero in una chiesa liberata, in una chiesa riformata e rinnovata. Non si ritrasse dinnanzi al costo dell'impresa: quella ribellione, o piuttosto quella vera e propria rivoluzione, che fu la Riforma. Essa doveva provocare nell'ambito della cristianità occidentale una profonda 'rottura' - una Zerspaltung, come dicono gli storici tedeschi - che non fu più ricomposta.
Cominciava così quel processo riformatore della Chiesa da cui dovevano sorgere le chiese storiche della Riforma, chiese a carattere territoriale, ciascuna con la propria teologia ed il proprio ordine, chiese separate e tuttavia accomunate nella decisione che il processo riformatore dovesse considerarsi praticamente chiuso.
Fu questa pretesa di chiusura ad alimentare il dissenso e a condurlo ad ulteriori dolorose separazioni. I dissidenti escono dalle chiese che erano sorte dalla rottura ed affermando che il processo riformatore non dovesse considerarsi chiuso ritengono che a loro volta abbiano il diritto-dovere di rompere, nel nome della libertà del cristiano e della chiesa.
Il dissenso dei radicali nasce dunque nel clima della Riforma in atto ed in un contesto di rottura. Di questo va tenuto il dovuto conto. Del resto anche la chiesa cristiana - la chiesa degli apostoli - è nata da una rottura.
La rottura non fa parte anch'essa della nostra eredità?

2. 'Sola Scriptura' e libero esame. 
All'autorità della Chiesa cattolico romana i Riformatori contrapposero l'unica autorità cui potevano fare appello, quella della Sacra Scrittura.
Non si appellarono, come gli Illuministi, alla ragione, autorità troppo umana per stabilire che cosa veramente Dio ha rivelato. Era del resto in base alla Scrittura che si criticava la Chiesa, la Scrittura quindi e solo la Scrittura doveva restare l'autorità in base a cui procedere alle riforme, facendone l'unico criterio di ciò che si doveva reputare falso o autentico, quindi di ciò che si doveva abolire o ripristinare.
Ma il 'Sola Scriptura' si rivelò un principio rivoluzionario dalle con­seguenze incontrollabili, perché se si dimostrava un'arma formidabile per chiudere la chiesa dei papi nei suoi errori, senza l'autorità dei papi esso rimaneva aperto e scoperto su un problema di cui non c'era una soluzione univoca: quello dell'interpretazione.
Nel vecchio ordine la chiesa con il magistero della sua gerarchia restava praticamente al di sopra della Scrittura: spettava solo a lei dire come si dovesse leggere. I Riformatori, con il 'Sola Scriptura', affermavano al contrario che la Scrittura sta al di sopra della Chiesa, come l'unica fonte autorevole della dottrina e della prassi. Al di sopra della Chiesa: era un totale capovolgi­mento. Ma al disotto della Scrittura, considerata come la sicura Parola di Dio, ora si ritrovavano i cristiani con la loro libertà ma anche con tutta la loro fragilità di fronte all'arduo compito di ricostruire la Chiesa.

3. Si danno diverse letture.
Ben presto si vide difatti che della Scrittura potevano darsi inter­pretazioni diverse ed anche contrastanti, dal momento che la libertà del cristiano assumeva anche l'aspetto di libertà di esame della Scrittura. Fin dall'inizio il processo riformatore della Chiesa produsse divisioni.
Il 'Sola Scriptura' tuttavia non fu mai smentito, almeno in linea di principio, per quanto si mostrasse assai difficile tradurre in pratica il principio di riformare solo sulla base di esso. In realtà ogni chiesa ripiegò sul compromesso di definire la dottrina e la prassi sulla base di una propria lettura della Scrittura. Si ebbe quella che più tardi Kant definirà la "fede ecclesiastica".
Tutti i dissidenti della Riforma e del Protestantesimo a loro volta giustificheranno il loro dissenso e la loro separazione sulla base del 'Sola Scriptura', ma praticamente di una diversa lettura di essa.
Il Protestantesimo da allora ha sempre dovuto fare i conti con questo arduo problema: come conciliare il principio del “Sola Scriptura", unica autorità in fatto di fede e di ordine della Chiesa, con l'evidenza ­che se ne danno inevitabilmente diverse letture, nessuna delle quali può pretendere di essere autorevole e quindi di per sé obbligante. Il cosid­detto problema ermeneutico è tuttora dinnanzi a noi irrisolto e irresolubile. Ed esso è in effetti il problema stesso della libertà del cristiano, che non può non tradursi anche nella sua libertà di lettura della Bibbia.
Il problema non esiste se il cristiano se ne sta quieto con le sue idee personali, dentro e fuori dalle chiese. Ma sorge inevitabilmente se, premuto dalla coscienza, le vuol fare valere all'interno della comunità o chiesa che sia. I radicali difatti non sono gente quieta, non sono gli "stille im Lande" del pietismo. Essi di solito vogliono essere chiesa, non liberi cristiani isolati. Tutti i loro gruppi concordano nell'affermare che i cristiani hanno la libertà di scegliere il modo di stare insieme e che questa libertà dovrebbero prendersela.
I limiti di questa libertà non possono essere dettati dal di fuori, ma solo dal di dentro del gruppo. Ma praticamente spetta ai singoli cristiani valutare le ragioni di restare uniti oppure di separarsi. Questo è lo spirito che anima la cosiddetta Riforma radicale. Quanto non abbiamo noi ereditato di questo spirito?

4. Il compromesso costantiniano
I Riformatori che nei vari centri promossero e guidarono la riforma della chiesa, fecero la scelta di imporre una lettura ufficiale della Scrit­tura ed un limite alla libertà di dissenso e separazione, per non cadere in un disordine che avrebbe molto probabilmente condotto la Riforma al f'al1imento. Il nuovo ordine venne legittimato con l'autorità del potere civile. Questo avvenne nei principati e nelle città imperiali nella Germania, nelle città­-stato della Svizzera, in Olanda e nei paesi scandinavi, quando non fu lo stesso stato a prendere l'iniziativa delle riforme, come accadde nella Gran Bretagna.
Si ritornava così di fatto alla chiesa costantiniana cioè ad una situazione di stretto legame tra chiesa e stato, in cui le due istituzioni si sosten­gono a vicenda. Del resto nella concezione che in quel tempo si aveva dello 8tato si riteneva che la religione fosse un instrumentum regni e che la Chiesa costituisse uno strumento utile a condizione che fosse una sola, unita ed ordinata.
I dissidenti non capirono le ragioni storiche di quel compromesso e lo rifiutarono nel nome della libertà della Chiesa. La libertà del cristiano - libertà del singolo credente nel suo rapporto con Dio - non poteva non impli­care la libertà dei cristiani anche in quanto chiesa e quindi la separazione della Chiesa e dello Stato.
La maggior parte dei gruppi dissidenti fecero di questo principio un ele­mento fondamentale di dottrina ed ancora una volta un motivo di fedeltà alla Scrittura che indubbiamente ci mostra una chiesa che nulla ha da spartire con lo Stato. Le eccezioni sono rare, come gli anabattisti (neomelchioriti) rivoluzionari di Münster e più tardi i gruppi puritani che sia in Inghilterra che nelle colonie d'America pretesero di costruire delle società governate dai santi.
Chiesa e Stato furono concordi nel condannare ogni pretesa di chiesa diversa e separata e trattarono duramente le comunità dei gruppi radicali, imputando loro il duplice reato di eresia e ribellione. Ma esse tennero duro ed accettarono l'alto prezzo della libertà rivendicata: persecuzione, privazione dei diritti civili, emarginazione, esilio.
Dovettero passare alcuni secoli prima che l'evoluzione della società civile in occidente portasse al riconoscimento che è bene e giusto che la chiesa e lo stato siano separati. Ma non fu certo per merito delle chiese che avevano accettato il compromesso costantiniano, sia nell'ambito del cattolicesimo che del protestantesimo, dal momento che esse si dimostrarono sempre piuttosto conservatrici se non reazionarie.
Indubbiamente su questo punto l'eredità dei radicali è stata raccolta dai laici

- II -
CHIESA DI CREDENTI

1. Chiesa di stato - chiesa di popolo.
Le chiese di stato nate dalla Riforma non solo sono chiese costantiniane, ma in quanto tali sono anche chiese di popolo (Volkskirche) o moltitudiniste, chiese cioè che comprendono tutta la popolazione del territorio.
In quest'unica chiesa stabilita si entra praticamente per nascita ed anagraficamente attraverso il battesimo dei bambini. Cittadinanza ed appartenenza alla chiesa territoriale vanno insieme.
Faceva parte del resto della situazione religiosa ereditata dal medioevo il fatto che la società, con tutte le sue varie componenti, costituisse il cosiddetto "corpus christianum” Ne fanno parte non solo la chiesa con le sue strutture istituzionali, ma anche le magistrature civili, l'università, la scuola, le corporazioni professionali, le opere di assistenza e di beneficenza.
Ai Riformatori non convenne contestare l'assurdità del 'corpus christia­num', perché per mezzo di questo essi potevano aggirare la grossa difficol­tà di stabilire il "ius reformandi", attribuendolo alle istituzioni riconosciute ed operanti.
L'anabattismo nasce a Zurigo proprio dal contrasto che sorse tra Zwingli ed i suoi seguaci più giovani, capeggiati da Grebel e Manz, a proposito del­la parte che la suprema autorità cittadina, il Consiglio della città, si arrogava nelle. Riforma: le riforme non passavano senza l'approvazione del Consiglio. I cosiddetti 'impazienti', come li chiama Zwingli, fanno l'affer­mazione rivoluzionaria che la chiesa si riforma da sé, contestando con questo anche il legame tra chiesa e stato.

2. Corpus christianum e corpus Christi.
Ma cos'era la chiesa che avrebbe dovuto riformarsi da sé? Era la chiesa di massa, la chiesa che faceva parte del 'corpus christianum' e ne era la copia, perché era fatta di credenti e non credenti, di cristia­ni veri e cristiani di nome. In questo genere di chiesa i dissidenti si ritrovano ad essere una minoranza impotente.
La ragione del dissenso quindi si amplia, perché passa necessariamente dalla contestazione dei pretesi diritti del 'corpus christianum' alla con­testazione della chiesa di popolo. L'autorità cui i dissidenti possono appellarsi è ancora una volta la Sacra Scrittura: la chiesa del Nuovo Testamento è incontestabilmente una chiesa di soli credenti e non vi si vede col­lusione tra chiesa cristiana e società civile. Quest'ultima è semplicemente il "mondo", con cui la chiesa è in opposizione.E poiché nella chiesa di popolo si entra attraverso il battesimo dei neonati, tanto che dire battezzati e cristiani era la stessa cosa, ecco la clamorosa contestazione del falso battesimo. Alcuni dei Gruppi radicali pas­seranno di qui alla richiesta, che apparve allora ben strana, che il batte­simo veramente cristiano tornasse ad essere il battesimo dell'adulto che confessa la sua fede in Cristo dopo essere stato istruito nelle Parola.
La chiesa che doveva essere riformata doveva cambiare radicalmente: doveva tornare ad essere il ' corpus Christi ' del Nuovo Testamento, ripudiando la menzogna del 'corpus christianum'.
Tutti i dissidenti della Riforma, e quelli che li seguiranno nel corso della storia del protestantesimo sono solidali su questi due principi:
1) chiesa libera dallo stato
2)
chiesa di credenti confessanti.Non tutti i gruppi del dissenso protestante seguiranno gli anabattisti nel ritorno al battesimo degli adulti. Lo faranno nel secolo XVII i Collegianti d’Olanda e i Battisti d’Inghilterra, nel secolo XVIII i Fratelli ( Dunkars) ed in seguito pressoché tutte le chiese libere.

3. Diverso rapporto con la società.
Val la pena di ritornare sul rapporto della chiesa di credenti - della Believers Church, come si dirà in seguito - con la società circostante. E' un rapporto assai diverso da quello tradizionale e assumerà questi due aspetti fondamentali:
1) Torna ad essere,come abbiamo già detto, rapporto di opposizione, come lo è nel Nuovo 'l'estamento, perché la società è il "mondo" e non vive secon­do la legge di Cristo. E' questo il ricupero di qualcosa di estremamente importante che era andato perduto.Qualche secolo dopo Kierkegaard, a proposito delIa chiesa di stato del suo paese, avrà motivo di dire; "… il concetto di cristiano è polemico, si può essere cristiani solo in opposizione… Una volta distrutta l'opposizione, essere cristiani è un non senso; come è avvenuto per la 'cristianità', che ha scaltramente distrutto il cristianesimo, con la sua affermazione: siamo tutti cristiani “ (Breviario, pag. 80 )
2) L'altro aspetto del rapporto è che la società torna ad essere terra di missione, come lo era ai tempi del paganesimo, ma in condizioni molto più difficili, perché c'è l'illusione di essere cristiani o l'assuefazione ad un cristianesimo di parata.E' un fatto che dagli anabattisti del secolo XVI in poi si torna a fare del lavoro missionario. Lo faranno certi gruppi puritani in Gran Bretagna, poi i Battisti, i Quaccheri, i Metodisti e i Fratelli Moravi.
Alla fine del secolo XVIII si farà anche della missione fuori della cosi­detta 'cristianità' e ad iniziare questa fase non saranno le chiese della Riforma classica, ma i Fratelli Moravi e i Battisti.

4. Libertà della comunità
Una cosa infine ci resta da vedere a proposito del tipo di vita comuni­taria che caratterizza i gruppi dissidenti. La chiesa di credenti viene a consistere di comunità locali autonome. In questo modo si realizza una ulte­riore libertà. quella di non essere inseriti in una struttura istituzionale come lo si è nelle chiese luterane e riformate.
Alla base di questa libertà sta un nuovo principio di ordine ecclesiastico, quello che più tardi in Inghilterra sarà chiamato della “ Gathered church" o della comunità locale riunita in assemblea. Esso si regge, scritturalmente, sulla nota affermazione di Gesù “ Ove due o tre sono radunati nel mio nome, ivi sono io in mezzo a loro " ( Mt. 18:20).
La comunità deve essere innanzi tutto comunità locale, cioè comunità in cui si incontrano credenti che vivono nello stesso luogo e si conoscono per consuetudine di relazione.
In secondo luogo deve realizzare nel proprio ambito una effettiva comunione fraterna nella meditazione della Parola e nell'amarsi gli uni gli altri nella pratica del servizio reciproco.
In terzo luogo la comunità è veramente e concretamente tale - de facto et de iure - solo quando e in quanto è riunita sotto la guida dello Spirito Santo, perché solo così essa costituisce un corpo dotato di membra come deve essere il Corpus Christi.
Se non ci sono queste condizioni non c’è la comunità vera e propria: c’è un'astrazione, dietro cui ci sono solo singoli credenti che vivono indivi­dualmente la loro fede senza effettivi legami di comunione nel medesimo Gesù Cristo.
Questo non significa che la comunità non abbia rapporti con comunità affini, se ve ne sono. Ma questi rapporti sono sempre rigorosamente orizzontali e paritetici. Essi possono eventualmente assumere forma nelle 'conferenze', in cui si incontrano dei rappresentanti dietro mandato delle rispettive co­munità per la tutela di interessi comuni. Ma sovrana è solo la comunità lo­cale e quando è riunita.
Si tratta di quel tipo di ordine ecclesiastico che in Inghilterra assumerà il nome, in senso largo, di "congregazionalismo".
La maggior parte dei gruppi di dissidenti che sono sorti sia nel periodo della Riforma che in seguito si sono organizzati secondo un modello sostanzialmente congregazionalista. Lo possiamo riconoscere nelle comunità anabattiste originarie e derivate (Mennoniti), ma anche in quelle di vari gruppi di Indipendenti inglesi, nei Battisti, nei Quaccheri, nei Collegianti olandesi, nei Fratelli o Dunkers e nella maggior parte delle nuove chiese libere, o “believers churches”, che sorsero nel clima del primo e del secondo risveglio.


- III -
COMUNITA’ DI EGUALI
1. Le membra del corpo di Cristo.
Il principio della 'gathered church' implica che della autorità o “potestas ecclesiae" siano depositari in pari grado tutti coloro che ne fanno parte.
Il che significa che nella comunità non vi sono membri dotati di speciali poteri che li mettano al di sopra degli altri e li rendano quindi diversi, come sono i sacerdoti nelle chiese di tipo cattolico o i "ministri" nelle chiese storiche della Riforma. L'autorità, ovvero il potere, è esercitato in modo solidale ed esclusivo dalla comunità riunita: è un potere indivisibile.
Nessuno quindi viene delegato a comandare su altri che debbano ubbidire.
Si potrebbe dire che l'insegnamento di Paolo sul corpo di Cristo e parti­colarmente sul rapporto tra l'unico corpo e le sue membra ( 1 Cor.12:12-31) venga letto alla luce di un noto insegnamento di Gesù ai discepoli, secondo cui nessuno tra di loro si deve fare chiamare maestro o guida, perché essi hanno nel Cristo l'unico maestro e l'unica guida e sono "tutti fratelli" (Mt. 23:8-11). Un insegnamento particolarmente sentito dai dissidenti in un contesto politico e sociale caratterizzato da un duro uso del potere. Quell'atteggiamento di opposizione che caratterizza un po' tutti questi gruppi li induce a trasferire nella loro vita comunitaria un ordine apposto, memori di un altro insegnamento di Gesù: " Ma non dev'essere così tra voi " (Marco 10:43).
Giustamente è stato detto che i radicali aspirano a fare delle loro comuni­tà una 'società alternativa'.

2. Ministeri e carismi.
Se in questo tipo di comunità non ci sono dei diversi investiti di qualche potere, resta valido l'insegnamento paolinico della diversità dei “ministeri' o dei “servizi', ai quali vengono preposti quei membri della comunità in cui siano riconosciute le capacità adeguate, o meglio i “doni' largiti liberamente dallo Spirito Santo.
Ma è sempre la comunità che giudica dei carismi, chiama al ministerio e ne controlla l'adempimento. E' sempre il ministerio che fa i ministri: non ci sono cioè ministri qualificati come tali indipendentemente dal ministerio e al di fuori della comunità.
D'altra parte una pratica rigorosa del principio egualitario non manca di far sorgere problemi. Purtroppo su quelle comunità in cui si invoca la libertà dello Spirito dispensatore di carismi incombe sempre il rischio della presunzione dello Spirito Santo, e non sempre la comunità ha la forza di porvi riparo, preservando l'ordine e l'unità.
Specialmente quando si verifica il caso che la comunità non riesca a con­dividere un giudizio o a prendere una decisione unanime il pericolo delle divisioni diventa reale. Soltanto i Quaccheri adottarono la prassi di aste­nersi dalle decisioni non unanimi in base al principio che se nella comunità non c'è unanimità non c'è lo Spirito Santo.
I vari gruppi dei radicali sotto questo aspetto presentano storie diverse.
Diventeranno proverbiali le divisioni a catena, anche per futili motivi, che si ebbero tra i Mennoniti d'Olanda. Più tardi altri movimenti nati dalla dissidenza, come i Battisti e i Metodisti, faranno l'amara esperienza del disaccordo e delle divisioni.
Ma è un fatto che su tutto il largo fronte del dissenso protestante l'or­dine imposto sia sempre stato considerato un male ben peggiore.

3. Libertà di predicazione. 
E' un luogo comune l'affermazione che la Riforma ha messo al centro della vita ecclesiastica la predicazione della Parola.
I gruppi dei radicali sono ancor più rigorosamente su questa linea. Il più delle volte è la clandestinità o la scarsa misura di tolleranza loro concessa che li costringe ad una drastica semplificazione dei loro culti, che si tengono per lo più nelle case private. Il ministerio della Parola, nelle varie forme della predicazione, della meditazione o dello studio, unitamente alla preghiera, assorbe pressoché tutta l'attività della comuni­tà riunita. Prima gli Schwenckfeldiani, poi i Quaccheri aboliranno anche il battesimo e la Santa Cena.
Ma se quello della Parola è più che mai il ministerio essenziale, i radicali tendono abbastanza decisamente ad allontanarsi dalle chiese della Riforma classica, su un punto di non piccola importanza: quello della libertà della predicazione.
Nella maggior parte dei loro gruppi si adotta con coerenza il principio che la predicazione sia un carisma che non lega lo Spirito Santo ad alcuni membri della comunità ad esclusione di altri.
Anche quando si dà il caso che la comunità designi più o meno stabilmente dei Servitori della Parola ( come avviene frequentemente tra gli anabattisti), resta valido il principio della libertà della predicazione. Gli anabattisti lo chiamavano il diritto di quelli che stanno seduti, riferendosi ad un non equivoco passo paolinico (l Cor.14:30). secondo cui questa era anche la prassi nella chiesa primitiva.
Una rivendicazione del genere - the liberty of prophesying - carat­terizza anche alcuni gruppi di Indipendenti in Inghilterra e in Scozia.
Desta tuttavia non poca sorpresa il fatto che in questo bisogno di libertà e di eguaglianza non si sia avuto considerazione di una metà della comunità, che era costituita dalle donne. Solo i Quaccheri, e tardivamente, riconosceranno il diritto delle donne ad esercitare il ministero della Parola nella Comunità.
Quello che qui importa mettere in rilievo è questa diffusa convinzione che solo il carisma fa il predicatore, e non la scuola o la preparazione, ma anche la riluttanza al costituirsi di una categoria di predicatori pro­fessionali che potesse anche lontanamente avere sentore di "clero”.

4. Comunità di laici. 
Sopravvive difatti nei gruppi dei radicali non poco di quel1'anticlericalismo che fu un elemento determinante di quel clima storico in cui la Riforma poté trovare larghi consensi ed affermarsi.
I radicali ritenevano che i Riformatori, pur rifiutando il concetto tradizionale del sacerdozio, si fossero come il solito fermati a metà stra­da anche in quel processo di laicizzazione della Chiesa che pur era auspicato.
Ai loro occhi, sempre estremamente critici, le chiese nate dalla Riforma erano ripiegate per timore del disordine sulla costituzione di un ruolo di regolari ministri formatisi nelle facoltà teologiche, consacrati all'interno della propria categoria e posti di fatto al di sopra delle comunità. Naturalmente è discutibile che si possa ancora usare a questo proposito lo screditato termine di clero, ma la funzione di questi ministri all'interno della Chiesa era pressoché quella di un clero e contava il fatto che i laici avessero ben scarsa importanza ed autorità nella vita ecclesiastica.
Un autore contemporaneo, Jacques Ellul, recentemente scomparso, molto critico nei riguardi della Chiesa istituzionalizzata pur essendo pastore nella Chiesa riformata francese, sostiene che anche nelle chiese protestanti c'è purtroppo un clero: … “ Tutte le Chiese hanno costituito un 'clero' che detiene il sapere e il potere, il che è contrario al pensiero evangeli­co… Occorre cancellare duemila anni di errori cristiani accumulatesi, di tradizioni errate; e non mi pongo come protestante che accusa i cattolici: abbiamo tutti commesso le stesse deviazioni " ( Anarchia e cristianesimo, p.30).
E' un fatto tuttavia che tutti i gruppi religiosi, quando si espandono e conseguentemente si organizzano, inclinano verso una qualche clericalizzazione. Anche i gruppi radicali, quando raggiungevano rilevanti dimensioni, si arrendevano molto spesso alla necessità di avere ministri preparati e facilmente disponibili, specialmente per la predicazione ed il lavoro mis­sionario. Si aveva tuttavia cura che essi non si sovrapponessero alle comunità, limitandone l'autonomia e la libertà interna. Poiché le comunità erano generalmente riluttanti a dare loro una rimunerazione fissa, questi "servitori" dovevano guadagnarsi da vivere esercitando una professione ed erano risarciti soltanto per le spese incontrate nel loro ministerio. Talvolta si con­sentiva loro l'accettazione di offerte volontarie. In Olanda nelle comunità mennonite del seicento molti di questi ministri erano normalmente dei pro­fessionisti ( in prevalenza medici ).
Anche tra gli Indipendenti ed i Separatisti inglesi era forte l'avversio­ne per un ruolo di predicatori cui fosse corrisposto un regolare stipendio (un popish living, come con disprezzo si diceva).
Si può comunque affermare che malgrado le comprensibiìl difficoltà nei gruppi dissidenti si coltivasse l'ideale di una comunità cristiana costi­tuita di laici e si cercasse anche di rimanervi il più possibile fedeli.

- IV -
COMUNITA' DI SANTI 

  
1. Giustificazione per fede, ma non solo.
Uno dei motivi più forti della polemica intercorsa tra le chiese nate dalla Riforma ed i gruppi radicali va visto nella discorde interpretazione del principio della giuetificazi0ne per sola grazia mediante la fede.
Da tutti i dissidenti di allora e di poi emersi dal protestantesimo viene accettato questo principio fondamentale della Riforma, con quale si pone l'accento sulla sola grazia e sulla fede personale del credente, sebbene si rifugga quasi sempre dall'usare questa espressione, 'giustificazione per fede', per l'uso equivoco che se ne può fare.
I radicali trovavano molto grave, e non senza ragione, che nella predica­zione corrente delle chiese stabilite, specialmente luterane, si tacesse di ciò che deve seguire alla fede: di quella rigenerazione cioè del credente ­in cui si continua la grazia e che è così chiaramente sottolineata e richiesta in tutte le pagine del Nuovo Testamento. Nella comprensione popolare la dottrina della giustificazione sarebbe diventata una nuova indulgenza, ple­naria e perenne, che favoriva il lassismo e giustificava l'andazzo del mon­do: qualcosa che si confaceva assai bene ad una chiesa di massa.
Da parte delle chiese della Riforma si reagiva rimproverando ai dissidenti che parlavano di fede operante, di discepolato e di santificazione, di essere regrediti alla salvezza mediante le opere della tradizione cattolica. E del resto non è lontano il tempo in cui autori di tradizione luterana come A.Ritschl e K. Holl recriminavano che per questo stesso motivo tutta una linea di pensiero che andava dall'anabattismo al pietismo si ponesse fuori dall'autentico protestantesimo.
Dobbiamo ad un grande teologo moderno, Dietrich Bonhoeffer, se sul concetto della giustificazione per fede è stata detta una parola chiarificatrice e forte che sostanzialmente rende giustizia ai radicali. Mi riferisco special­mente, tra le Opere di Bonhoeffer a Nachfolge, e più particolarmente al suo capitolo introduttivo, che è intitolato "la grazia che costa”.
Già il titolo stesso del libro nella sua estrema brevità - Nachfolge! - è significativo e polemico, ed è davvero un peccato che sia intraducibile.
Nella traduzione italiana è stato reso con il termine 'Sequela', che suona un po' strano al nostro orecchio. Meglio si è fatto nella traduzione francese ove il titolo diventa Le prix de la grace, ed ancor meglio in quella ingle­se, The Cost of Discipleship, in cui compare questa parola - discepolato - in cui potrebbe compendiare tutta la tematica del libro.
Rigenerazione, discepolato, santificazione, sofferenza, croce: erano questi i temi su cui cui insisteva la predicazione del dissenso protestante.
E' un cristianesimo tuttaltro che comodo, come appunto Bonhoeffer riteneva che dovesse essere il cristianesimo: qualcosa che si paga.

2. Centralità di Cristo, più che mai.
Questo più forte accento posto su una fede operante per mezzo della grazia è ancora un aspetto di quella centralità di Cristo che caratterizza teologicamente tutto il vasto e variegato fronte del cristianesimo sorto dalla Riforma protestante.
Il ritorno alla Scrittura, e più precisamente alla 'Sola Scriptura', porta anche al ricupero dell'interezza della figura neotestamentaria del Cristo, di cui è parte essenziale anche il Cristo che è Signore e Maestro. Ma nella lettura che i radicali fanno di questi due titoli, il Cristo è Signore perché comanda ed esige ubbidienza, è Maestro in quanto insegna e vuole che si metta in pratica. Coloro che credono in lui debbono anche credere che egli sia veramente la Via e sono tenuti a seguirlo nel cammino per cui procede: perché al "credi in me" è associato sempre il “tu seguimi ". E la Chiesa, secondo il suo originario e genuino significato di assemblea o riunione in cui il Cristo è presente, deve tornare ad essere essenzialmente " schola Christi ".
Solo questo Cristo è veramente “centrale" perché è vivente nell’effettiva vita di fede degli individui e delle comunità, e non nelle strutture di una istituzione.
Un altro aspetto di questo più autentico ricupero della centralità di Cristo è un approccio più immediato al Gesù degli evangeli, al di là dei condizionamenti della cristologia conciliare.
Non già nel senso che venga ripudiata tutta la dogmatica storicamente emersa da Nicea a Calcedonia. Salvo qualche rara eccezione, la cristologia seguita è ancora quella tradizionale, secondo la linea dominante nella teolo­gia della Riforma. E' piuttosto il linguaggio che cambia, in quanto si sforza di essere aderente a quello del Nuovo Testamento e specialmente degli Evan­geli, in cui Gesù è soprattutto una persona, indipendentemente dai problemi che può sollevare la definizione della sua natura e del suo rapporto con il Padre.
Questo bisogno di immediatezza nei riguardi del Gesù Cristo dell'Evangelo può anche spiegare come sia stato possibile in uno dei movimenti estremi del dissenso protestante, il socinianesimo, arrivare al ripudio del dogma trinitario.
Anche quando il Cristo viene interiorizzato, come accade in alcune frange spiritualizzanti dell'anabattismo, negli schwenckfeldiani e più' tardi nel quaccherismo e nel pietismo, esso ha sempre i connotati del Cristo degli Evangeli: è un Cristo che chiama in disparte e cerca l'intimità, ma per infondere nel credente quella parola che è spirito di vita, la parola cioè con cui dovrà camminare nel mondo e in mezzo agli uomini.

3. Il costo del discepolato.
Spetta soprattutto agli Anabattisti il merito di avere rimesso al posto d'onore il termine ed il concetto di discepolato, che qualificano nel Nuovo Testamento il credente che si pone alla scuola di Cristo. Essi risalgono alle scaturigini stesse del cristianesimo molto più decisamente e radicalmente degli stessi Riformatori, privilegiando rispetto a Paolo i Sinottici e quindi l'insegnamento diretto di Gesù, specialmente quello del Sermone del Monte.
"Discepolato" non è però un altro termine astratto, preso a prestito dal linguaggio degli evangeli, con la pura f'unzione di designare in altro modo la tradizionale condizione di credente. Il discepolato torna invece a definire, non senza intento polemico, l’essenza stessa dell'essere cristiani.
Gesù Cristo chiama a compiere la volontà del Padre e non lascia molte illusioni a chi crede di cavarsela intruppandosi in una chiesa e seguendone le pratiche. La via che egli addita torna ad essere stretta e dura, e chi vuol seguirla deve conoscerne il costo. Chi entra in una cosiddetta “setta” posta al bando dalla chiesa stabilita e dal potere civile sa che questo gli coste veramente caro: il disprezzo, l'emarginazione, l'esilio se non la morte.
Non si può rischiare tutto questo semplicemente per una diversa scelta di essere devoti e di fare chiesa. Ci deve essere qualcosa di ben più serio: una visione della vita cristiana per cui valga la pena di accettare la sofferenza, di prendere su di sé, e non in figura, quella croce che il Cristo addita a chi vuol essere veramente suo discepolo.
Se riguardo al prezzo effettivamente pagato il caso dell'anabattismo ò unico nel suo genere (è ben noto il suo martirologio), non dobbiamo nacon­derci il fatto che per alcuni secoli nel grembo del protestantesimo si siano avuti rivoli di dissenso, da cui sono emersi uomini e donne di ogni condizio­ne sociale che hanno duramente combattuto e pagato per la libertà di coscienza, per il diritto di essere diversi, ma soprattutto per una affermazione di fedel­tà ad una comprensione del cristianesimo che si riteneva superiore a quella dell'establishment e della maggioranza.
Sin tratta di una lunga storia che val la pena di conoscere meglio, di cui sono protagonisti Anabattisti, Mennoniti, Hutteriti, Schwenckfeldiani, Puritani, Indipendenti, Brownisti, Battisti, Quaccheri, Collegianti ed altri ancora che sarebbe lungo nominare. Gli storici di questo Protestantesimo cosiddetto marginale potranno non aver torto quando affermano che è un problema ricondurlo ad una qualche unità e persino dare un nome comune a questo arcipelago di gruppi dissidenti. Non è tuttavia trascurabile il fatto, che tutti li accomuna, che per la libertà di camminare con il loro Cristo non abbiano esitato a pagarne l'alto costo. Può essere oggi incoraggiante ricordare che dei cristiani l'abbiano fatto.

4. Santi visibili.
Il discepolato non è che un aspetto di un più ampio concetto della vita rigenerata dalla grazia: la santificazione. Il discepolato difatti implica la santificazione come la condizione da cui non si piò prescindere per realizzare una autentica ed effettiva ubbidienza.
Ma mentre nell'uso corrente che ne fanno i radicali il termine discepolo viene riferito di solito alla condotta individuale del credente, il termine “santificazione” si riferisce sia alla singola persona che alla comunità di cui fa parte. Perché anche la comunità è chiamata ad essere santa, “senza macchia né rughe”. E può esserlo nella misura in cui coloro che lo costituiscono rendono una testtimonianza di seria vita cristiana sia nella condotta privata che nella vita comunitaria, in cui la sincerità dei rapporti fraterni ed il fattivo reciproco amarsi, aiutarsi ed edificarsi deve testimoniare dell'essere veramente corpo di Cristo.
E' compresibile come nei gruppi dissidenti non solo per il loro concetto della vita cristiana e della chiesa, ma anche per la loro condizione di minoranze più o meno denigrate e vessate, si dia un’estrema importanza alla santificazione e se ne faccia una questione di solidale responsabilità comunitaria. Rientra difatti nelle prerogative di autonomia ed autogoverno della comunità il diritto-dovere di darsi una 'disciplina', che contempla comunemente due misure: la 'riprensione fraterna' e il 'bando'.
Ovviamente questa preoccupazione di mantenere alto il livello spirituale e morale della comunità portava seco il rischio di alimentare non solo un deteriore legalismo, ma anche un corrosivo spirito censorio all'interno ed una malsana presunzione settaria verso l'esterno. Comunque, l'esigenza della santificazione, che caratterizza all'inizio in modo particolare i gruppi anabattisti, ricompare in varie forme in tutti i movimenti di dissenso che sorsero in seguito.
Il rigorismo calvinista trovò una sua particolare espressione in Inghil­terra nell'ambito dei gruppi di origine puritana con un’affermazione molto polemica della santità. Qui si parla di 'saints', anzi di “visible saints” e si fa persino una “revolution of the saints “, seguita da un “ parlament of the saints “, perché si ritiene che la santità non riguarda solo la vita privata, ma anche quella pubblica. I santi sono la città posta sul monte, ben visibile.
Siamo lontani, anche per il linguaggio, da Lutero, secondo il quale "I santi sono nascosti" (sancti latent) e dalla tradizione 1uterana, secondo cui la vera chiesa è invisibile all'occhio umano e-conosciuta solo da Dio.
L'idea che la santificazione sia un elemento non trascurabile della genuina esperienza cristiana ha indubbiamente una lunga ed interrotta storia nell’ambito del cristianesimo. Ma con i radicali della riforma la santificazione è vista in un'altra prospettiva, consona al diverso concetto che si ha della vita e della comunità cristiana. essa difatti non è più una vo­cazione riservata a pochi eletti, perché tutti coloro che credono in Gesù Cristo e nell'evangelo sono chiamati ad essere santi.
Ci porterebbe troppo lontano ricordare come da allora in poi il tema della santificazione venga più volte ripreso e ripensato in altri movi­menti protestanti. Ci limiteremo ad accennare alla fondamentale importanza che ebbe la santificazione nell'insegnamento di Giorgio Wesley e dei non pochi gruppi metodisti o di ispirazione metodista che ne discendono.
Il cosiddetto " perfezionismo " di origine wesleyana, malgrado le diverse interpretazioni che se ne dettero, è alla base di quel vasto movimento conosciuto come l' "holiness movement" che comparve negli Stati Uniti nel secolo XIX ed i cui effetti si sono risentiti anche nel secolo XX.


CONCLUSIONE:
I RADICALI E NOI


In che senso si può parlare di una eredità della Riforma radicale ed in genere dei movimenti di dissenso che accompagnarono la Riforma o la seguirono ?
Ovviamente non possiamo prendere il termine "eredità" nel suo significato ristretto di un passaggio di beni secondo linee dirette, perché apparentemente queste linee dirette non ci sono. A meno che non ci riferiamo a quei pochi gruppi che direttamente si ricollegano ai dissidenti del secolo XVI e XVII e che oggi ben poco conservano dell’originario indubbio radicalismo.
E' vero tuttavia che non possiamo ignorare il fatto che pressoché tutti quei gruppi, e taluni al completo, emigrarono nell'America del nord e det­tero un contributo essenziale al formaresi di quel clima culturale che è alla base dello sviluppo democratico ed economico degli Stati Uniti, come ci han­no mostrato due studiosi della vecchia Europa: de Tocqueville (La democra­zia in America, 1835-1840) e Max Weber (Le sette protestanti e lo Spirito del capitalismo, 1906).
Ma per quanto riguarda noi, cristiani che vivono la loro fede nelle attuali società europee, possiamo soltanto dire che con quelle ormai lontane generazioni abbiamo un legame puramente ideale, che passa attraverso una certa lettura della Bibbia e non manca quando è il caso di essere critico.
Ci piace difatti che non siano state delle letture filosofiche o degli interessi politici ma le pagine del Nuovo Testamento, rilette con notevole libertà dagli schemi tradizionali, a condurre quei credenti ad idee che era­no veramente innovatrici rispetto al modo di pensare dei loro contemporanei. Noi ci siamo soffermati solo su alcune di esse, che ci sono sembrate anti­cipatrici del nostro modo di pensare la chiesa e la testimonianza cristiana. Come il principio della separazione di Chiesa e Stato, la critica della chiesa multitudinista e di conseguenza del pedobattismo.
Altre intuizioni tipiche dei radicali sono ancora dinnanzi a noi più og­getto di discussione che di unanime consenso. Come il principio che la chiesa debba essere chiesa di credenti confessanti e responsabili, conside­rato da molti un ideale che non è facile tradurre in pratica senza inconvenienti.
Si è pronti a riconoscere in linea di principio anche l'importanza che ha, sia dal punto di vista teologico che pratico, la comunità locale per l'esperienza di fede e di effettiva comunione fraterna che vi si può fare, inclusavi la comunione di quei carismi che possono venire riconosciuti e valorizzati soltanto dove vi sia una buona misura di libertà e di eguaglianza nella vita comunitaria.
Questo ci mette dinanzi al problema, oggi assai sentito nel mondo protestante (e non solo in esso), di realizzare nelle chiese un autentico governo democratico, che ha il suo presupposto nella vitalità e nella forza coinvolgente della comunità locale.
Senza dimenticare un'altra aspirazione molto condivisa tra noi, quale è l'apertura senza preclusioni di sorta all'elemento laico in tutti i campi, compresivi il ministerio della Parola e gli incarichi direttivi. Noi protestanti italiani in particolare siamo assai sensibili a questa prospettiva, per il fatto che viviamo in un paese in cui è normale associare l'idea della chiesa a quella di un ceto di ecclesiastici. E' significativo che nel nostro pic­colo mondo protestante la chiesa valdese e quella battista abbiano elevato al posto di maggior responsabilità due laici.
Sotto questi vari problemi c'è anche la preoccupazione di fondo: quella che la chiesa, intesa come comunità di fede, non sia confusa con le sue strutture istituzionali e magari da queste praticamente esautorate. Viviamo tutti sia pure in modi diversi, in questo vero e proprio sospetto dell'istituzione.
Ci resta da dire ancora una parola su un altro problema, che come abbiamo veduto ha assillato un po' tutti i gruppi del dissenso: quello della santificazione.
Apparentemente questo tema imbarazza il cristiano d'oggi, perché vi vede una sollecitazione di carattere pietistico che lo rende dubbioso. La stessa parola, santificazione, indubbiamente non piace, per l'uso equivoco che co­sì spesso se ne è fatto. Un termine come " discepolato " sembra meno compromes­so e più accettabile. Ma non può essere elusa la sostanza del problema che è davanti ad ogni generazione di credenti: come essere fedeli all'insegnamento di Gesù Cristo in mezzo agli uomini del proprio tempo.
I radicali hanno fortemente sentito e sottolineata la necessità della diversità cristiana in una situazione storica in cui tutti erano 'cristiani' in una società che si definiva cristiana e in cui si esigeva che ognuno si conf'ormasse e questo equivoco.
Noi viviamo in una situazione profondamente diversa. Le nostre società occidentali sono definit1vamente secolar1zzate, il che ha anche un aspetto vantaggioso perché ci libera dalla grossa menzogna del cosiddetto "mondo cristiano". In questo mondo che in effetti non è stato mai cristiano e dal cristianesimo è sempre più lontano, i cristiani che confessano la loro fede e cercano seriamente di viverla si ritrovano ad essere ormai una minoranza che ha sempre meno influenza sulla società che la circonda.
Proprio a motivo di questa situazione essi sono di fronte alla ineludibile necessità di trovare quel rapporto col mondo che si richiede oggi a chi ha scelto di stare con Gesù Cristo, unico Signore, unico Maestro, unica Guida: quel rapporto in opposizione di cui parlava Kierkegaard, e cioè quell'essere "diversi" che non è facile e che costa.
Chi vuol essere cristiano oggi non può permettersi illusioni: o lo è in modo radicale o non lo è.


© UGO GASTALDI
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